Nove mesi dentro… nove mesi fuori!!!!

Oggi Maia fa i suoi nove mesi e io sono
felicissima perchè siamo arrrivate alla fine dell’esogestazione! Era una meta importante nella nostra scelta di come
portare avanti i primi mesi di vita della nostra prima figlia perché
noi non abbiamo considerato il parto come un momento di principio e/o
fine ma semplicemente un continuum.

In realtà non sappiamo ancora se
abbiamo fatto bene e delle volte abbiamo nostri dubbi, ci chiediamo
se la stiamo “viziando”, se forse semplicemente “mal educando”
ma a parte tutto stiamo facendo quello che ci dettano cuore e
istinto, che proviamo a supportare con un po’ di studio e letture su
una pediatria diversa che pare ogni giorno più condivisa.

Michel
Odent, già negli anni 70, ha descritto il "sistema di
adattamento primale", da lui così chiamato, che compone
la matrice di base del nostro sistema di salute. Si forma nei primi
diciotto mesi di vita, compresi i nove mesi intrauterini e si
completa e stabilizza definitivamente verso la fine del primo anno di
vita. Il grado dii equilibrio raggiunto alla fine dell’esogestazione
rimane tale per tutta la vita e forma il "programma di base"
della salute.

Già durante la gravidanza ragionavamo sull’immaturità di questo esserino alla nascita, per esempio un cavallo quando nasce già
cammina, mentre invece il cucciolo umano neanche alza la testa!!! È
solo capace di trovare la tetta se una lo mette sul petto, e questo
solo per dire una cosa semplice, non parlare di organi e men che meno
di apparati digerenti, ecc, ecc che alla nascita non sono per niente
sviluppati per lavorare da soli: hanno bisogno della mamma vicina.
Per cui quando abbiamo sentito parlare della teoria dei nove mesi
dentro e i nove mesi fuori subito l’abbiamo sentita affine perché
era quello che sentivamo di fare. Per quello abbiamo usato la fascia,
sia la mamma che il papà, tenendola stretta con noi, e per
quello abbiamo continuato l’allattamento esclusivo fino al sesto mese
e oggi, che facciamo i nove, continua ad essere il suo principale
alimento.

Il mio “staccamento” di Maia è
stato molto graduale, qualcuno della famiglia mi ha criticato per
questo ma io ho preferito non ascoltare e continuare a fare come
sentivo. I primi tre mesi non mi sono separata da lei neanche per
farmi una doccia (ed è stata dura), poi se ne è andata
a fare un giro con una zia per ben quindici minuti, verso i sei mesi
è rimasta un’ora con la nonna e oggi che ne fa nove va via
contentissima con amiche mie che la portano al parco e addirittura se
la portano a casa loro e lei rimane contentissima a giocare! A me non
manca e non mi angoscio anche se il mio seno mi ricorda che c’è
qualcosa che manca… Sono sicura che a settembre, quando inizieremo
il micronido a tempo breve, saremo tutte e due preparatissime ad
iniziare una nuova vita, ognuna la sua ma contando su di noi.

Oggi Maia, dopo questi nove mesi di
attaccamento totale verso di me, non solo va in giro sicura e
sorridente, ma anche il suo sviluppo fisico è eccellente. Ai
cinque mesi ha iniziato a gattonare, e infatti a tutti quelli che mi
dicevano che facevo male a portarla in braccio perché l’avrei
abituata male e poi non avrei potuto tenerla più perché
pesante devo dire che Maia in braccio quasi non ci vuole stare: un
giorno è scesa e ha iniziato a gattonare, da lì non si
è più fermata e trova noiosissimo essere in braccio! Ai
sei mesi si è seduta perfettamente e un po’ dopo si è
messa in piedi, e da qualche giorno aggrappandosi alle cose si sposta
in piedi e se la tieni dalle manine cammina!

Mangia le sue pappette (ma credo che
preferisca quello che mangiamo noi, altro che pappette),
solo che preferisce il latte di mamma e su questo stiamo andando
veramente piano.

Non voglio scrivere molto
sull’esogestazione perché ci sono studiosi che ne sanno molto
di più, mi interessa raccontare che noi abbiamo preso i nove
mesi di Maia come un continuum della gravidanza, dando a lei la
possibilità di scegliere il ritmo della sua crescita, con
tanto amore e sicurezza che le permette di andare e tornare quando
vuole. È stata sicuramente una scelta dura per me ma spero che
mi dia buoni risultati e ad ottobre, quando farà un anno, io
possa tornare a studiare!

Vi propongo qui di seguito un testo di
Michel Odent:

ESOGESTAZIONE
 (di
L. Braibanti)


Il
feto-bambino è un essere ‘ambiguo’, insituabile: prima e
dopo il parto non si ha più a che fare con la medesima ‘cosa’,
ma non si tratta ovviamente di una ‘cosa’ che abbia perduto la
propria unicità e continuità. Questo paradosso è
confermato dal fatto che non abbiamo nomi generali per indicare la
totalità della vita, dentro e fuori dall’utero materno. Ciò
si spiega forse con il disagio delle culture di fronte ad una così
radicale frantumazione dell’esistenza che solo la morte sembra
pareggiare.

Ma
proprio per la nascita e il suo trauma inducono a una attenzione
significativa verso questo essere vivente e i suoi bisogni. Non solo
va tutelato nel suo diritto alla vita, ma gli va riservata tutta
l’attenzione e l’amore che lo portino a superare l’esperienza
totale di solitudine, angoscia e dolore.

Il
feto-neonato è protagonista di una vicenda in cui predomina il
senso di abbandono e di lacerazione dell’esistenza, che può
lasciare a lungo segni profondi e che non può essere
sottovalutata solo per il fatto che egli non sa esprimersi in modi
riconoscibili. Il dolore del feto-neonato non può essere
raccontato e quindi semplicemente lo si nega. Tuttavia l’operatore
deve riuscire a rappresentarsi questa lacerazione profonda, a
riscoprirla nel proprio intimo, costruendo su di essa un rapporto
empatico ed affettivo assai intenso. 

Ma
soprattutto deve fare in modo che chi nella situazione è più
‘esperto’, cioè la madre, possa esercitare nei confronti
del piccolo un’azione di riparazione affettiva, ripristinando e
restaurando con altri mezzi il legame che la nascita ha così
traumaticamente turbato.

Esaurita
la gestazione endouterina, il neonato umano si trova in una
condizione alquanto diversa rispetto a quella della maggior parte
degli animali, in parte assimilabile alle specie nidicole con prole
inetta. Nei gradini della scala zoologica più prossima alla
specie umana i piccoli presentano alla nascita un grado maggiore di
autonomia e, conseguentemente, minore necessità di cure
parentali. Il neonato umano invece si trova in uno stato di relativa
impotenza e, come sostiene Hartmann, la ridotta gamma degli istinti
lo costringe ad una dipendenza pressochè totale nei confronti
dei genitori e, in generale, dell’ambiente circostante.

Questo
stato evolutivo è messo in relazione, da parte degli
antropologi, al peculiare sviluppo del sistema nervoso centrale e al
conseguente ingrossamento della capacità cranica. La selezione
naturale avrebbe via via favorito la nascita di piccoli ‘prematuri’,
con una dimensione della testa e uno sviluppo cerebrale incompleto,
rispetto a piccoli più maturi ma che avrebbero potuto essere
partoriti solo con gravi difficoltà, a causa dell’abnorme
grandezza cranica rispetto a quella del canale del parto. Da ciò
deriverebbe il fatto che una parte significativa di ciò che
poteva considerarsi l’accrescimento endouterino si trova invece ad
avvenire dopo la nascita, restando il bambino nelle prime settimane
in gran parte disadattato alla sopravvivenza sia sotto il profilo
dell’adattamento motorio sia dal punto di vista dell’adattamento
cognitivo e sociale.

Questa
ipotesi giustifica la considerazione dei primi mesi di vita come
periodo di ‘esogestazione’, di completamento esterno della
gestazione endouterina. Tale interpretazione è sostenuta anche
dalla comparazione del rapporto gestazione/accrescimento nelle varie
specie, che nell’uomo tocca un livello estremamente basso. Ciò
nonostante non si deve enfatizzare eccessivamente il carattere
passivo e impotente della presenza del neonato nella scena delle
prime relazioni sociali.

A
partire dagli anni Settanta si è affermata una posizione più
pertinente che, senza mettere in discussione l’indispensabilità
per il neonato di un ambiente sociale ricco e di cure parentali
adeguate, ha peraltro messo in luce una competenza precoce del
bambino rispetto a quello stesso ambiente sociale e alle cure
parentali, che ne fanno un protagonista attivo, in grado di
indirizzare il corso dell’interazione con gli adulti e, in parte,
di anticiparlo intenzionalmente. Il neonato, insomma, non sarebbe
affatto privo di proprie strategie di adattamento ma, piuttosto,
queste strategie sarebbero specializzate per il contesto sociale
entro cui la specie ha ‘scelto’ di collocare l’esperienza delle
prime fasi di sviluppo.

(…)
Più in generale, la tendenza a considerare e a giudicare
separatamente madre e bambino, al di fuori del contesto relazionale,
conduce ad una serie impressionante di errori, sia sul piano teorico
che su quello pratico, errori fortunatamente superabili proprio per
la forza che l’equilibrio dinamico della relazione esercita sullo
sviluppo di entrambi. Né va sottovalutato il fatto che i primi
mesi di vita rappresentano, come già gravidanza e parto, un
momento di sviluppo della personalità materna, sviluppo che va
posto in continuità con le fasi precedenti, ma sul quale
esercita ora una potente azione il bambino come agente della
socializzazione materna.

Anche
in questo senso si può dire che il bambino ‘costruisce’
l’ambiente del proprio sviluppo, mentre l’ambiente contribuisce a
favorirne la crescita. L’intercambiabilità dei ruoli materno
e infantile quali agenti-oggetto di socializzazione è una
caratteristica estremamente importante dell’evoluzione della nostra
specie. Qui torniamo allora alla considerazione unitaria della
gestazione, del parto, dell’esogestazione, evento di estrema
rilevanza nella vita della persona, al quale occorre attribuire
un’attenzione non divisa, ma costantemente focalizzata su ciò
che avviene ‘dentro’ i protagonisti diretti.

Contemporaneamente
si lasci ad essi spazio per vivere questa esperienza da protagonisti
nella pienezza dell’esistenza, cercando di rimuovere gli ostacoli
che si frappongono fra l’individuo, il suo ambiente sociale e
questa fondamentale esigenza.

Tratto
da “Parto e nascita senza violenza”

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