Vi aspetto! alla Cascina Roccafranca per parlare di maternità e anche per guardarla

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Cercasi pancia

Come potete leggere in alcuni articoli in questo blog sono una mamma fotografa. In questo momento sono alle prese con un mio progetto che amo molto, progetto che ho iniziato quando ero incinta e che adesso sto concretizzando (senza finanziamente). E’ un progetto ambizioso: sto cercando di mettere la pancia ad alcuni quadri che sono diventate icone dell’arte.
Io abito a Torino e cerco donne incinta per fare dei ritratti. L’invito  è quello di giocare con il proprio corpo riprendendoci non solo le nostre gravidanze ma anche l’arte.  

Chi ha interesse a saperne di più può contattarmi: manuela chiocciola aldabe.org

grazie e a presto!

come modelle o come spettatrici!

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La danza

Da sempre la musica ci ha accompagnato: durante la gravidanza avevamo i nostri dischi favoriti e abbiamo trasmesso in radio fino al nono mese di gravidanza per riprendere subito (la prima trasmissione di Maia è stata quando aveva due settimane e mentre parlavo al microfono l’allattavo) il programma "El ritmo del barrio", musiche e notizie dell’America Latina. Ma con un disco ci è successa una cosa particolare. E’ un disco di musica celtica che abbiamo scelto per farla addormentare.
Da quando ha meno di un anno abbiamo iniziato a fare il rito della buona notte che inizia con il bagno e finisce con il ballo. Dopo il pigiama le davo l’ultima poppata, che adesso è diventata l’ultimo biberon di latte di riso, ascoltando la musica di questo tranquillo cd. In questo speciale tempo abbiamo iniziato a ballare. La stanza in penombra, Maia in braccio, io che la cullo su e giù e la musica hanno iniziato a invitare il mio corpo a muoversi in un ritmo tutto nostro. Prima facevo gli esercizi della lezione di danza afro, adesso qualche passo di palestra. Non mi piace essere guardata, è una danza molto intima, solo nostra, che posso anche accompagnare con una canzone di culla, e quindi alcune volte socchiudo la porta anche se credo che non sia neanche necessario: il papà si gode quel momento di riposo (non sa mai quando mi stancherò e toccherà a lui farla addormentare).
Non è una ricetta per far addormentare i bambini ma più che altro è un consiglio in più per godersi il proprio corpo insieme a quello del bambino che è stato dentro di noi o che fa parte oggi di noi.
Ballare insieme, sempre con la stessa musica apre una finestra su un mondo speciale che è quello della notte, un dolce abbraccio che ci da conferma su quanto ci amiamo e ci accompagnamo anche se siamo in stanze diverse.
Il disco si chiama Celtic Harp, lo ha trovato per caso mia mamma a casa di una cara amica, ma credo che non sia importante che sia proprio quel cd, ogni coppia di danza deciderà quale fa per se. Per cui ballate, ad ogni ora, ogni volta che avrete la possibilità di cullarli esercitate il vostro corpo, la vostra schiena, le vostre gambe, i vostri piedi, le vostre mani e, anche, esercitate le vostre anime.

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Mamma trabajo treno

Sono su un eurostar diretto a Brescia.
Ho appena lasciato Maia e il suo papà a Porta Susa e scrivo dal mio
nuovo mac.

Domani ci sono le elezioni in Uruguay e
vado a fare fotografie della comunità uruguaiana che si incontra a
cena per aspettare i risultati che, secondo tutte le previsioni,
faranno di Pepe Mujica il nuovo presidente del piccolo paese
rioplatense. Un presidente singolare ma che non sorprende nella scia
presidenziale latinoamericana: Lula, Chavez e Morales hanno aperto il
percorso verso un nuovo southamerican president style nel quale
Mujica s’incastra perfettamente con il suo passato “terrorista” ,
il suo discorso nella lingua della gente e il suo look di contadino
che divide il suo tempo tra la piantagione di fiori e l’essere in
parlamento.

In Uruguay c’è moltissima speranza di
festeggiamento per domenica e io sono preparata a lavorare fino a
tardi per mandare le foto ai giornali in tempi di stampa. Ho quattro
ore di vantaggio, i risultati si sapranno verso le ore 20.30
uruguaiane quando in Italia sarà mezzanotte e mezza, ma quello vuol
anche dire che finirò di lavorare intorno alle 4 am di lunedì.
Voglio prendere il treno delle 7 per arrivare a Torino verso le 11 e
poter prendere Maia alle 13.30 (previo passaggio in tipografia per
dare l’ok alle prove di stampa), altrimenti dovrei prendere un treno
verso le 10 am, ma arriverei a Torino per le 14 e quindi potre andare
a prendere Maia solo dopo le 16.30 , ho una riunione di lavoro con
una modella alle 17.30 e quindi il tempo per stare con la bambina
sarebbe poco… meglio farci il riposino insieme e poi andare tutte e
due in bici alla riunione. E poi devo andare assolutamente alla
riunione della radio visto che siamo alla fine dell’organizzazione
della serata di lancio del calendario 2010 per il prossimo venerdì
4.

Maia era bellissima mentre aspettavamo
il treno e diceva “mamma trabajo foto tren”, lo capiva
perfettamente e io sono felice di questo. Ho scommesso tre anni della
mia vita per questo risultato e vedere che lei adesso è preparata
per le mie partenze di lavoro mi fa sentire molto libera. Ho sempre
cercato di farla sentire sicura di me, del mio affetto verso di lei e
di darle la conferma che ci sono anche se ogni tanto può darsi che
devo prendere un treno, un aereo, una macchina e stare via per
qualche giorno. Mi sono sempre immaginata così, sono un’eterna
viaggiatrice e voglio avere la mia casa, la mia famiglia in un posto
ma voglio anche andare e tornare con la mia macchina fotografica,
essere un po’ un uccello che va, prende e torna.

Forse adesso siamo preparati tutti e
tre per farlo. Stiamo a vedere, ma io sento che adesso è ora e che è
di questo che ho anche bisogno. E poi fare la fotografa è difficile
e bisogna dedicargli moltissimo tempo, girare tanto, ma anche se è
complicato credo che sia meglio essere una mamma contenta che lotta
per i suoi progetti che una mamma frustrata ma sempre presente.
Questo non vuol dire non esserci ma semplicemente avere il mio tempo.

L’Uruguay vuole un presidente come la
gente, e io una mamma che lotta per se stessa.

Questa è la mia prossima scommessa.

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E se non vogliamo firmare il permesso?

Al nido ci hanno chiesto di firmare un foglio: un permesso che dice che Maia può uscire sempre, ogni volta che c’è un’uscita programmata e non, e incredibilmente noi abbiamo detto di no. Questo, a qualche settimana di distanza, è diventato un problema al punto che questa mattina ci hanno telefonato dal Comune di Torino e ci hanno chiesto di fare una riunione insieme alla coordinatrice del nido convenzionato frequentato da nostra figlia, che ricordiamo ha due anni.
A leggerla così sembra una cosa incredibile, principalmente perché tutti i genitori hanno firmato, e quindi la prima cosa che viene da pensare è che siamo noi ad essere un po’ strani (e sicuramente lo siamo, ma neanche poi tanto), ecco perché vi invito a continuare a leggere e magari poi, con un commento, aiutarci a capire da quale parte andare.
Prima di tutto c’è da dire che noi siamo disposti a firmare ogni giorno per ogni uscita, purchè sia programmata o veniamo avvisati in qualche maniera, semplicemente non vogliamo firmare un foglio che dia carta bianca al nido per far uscire Maia senza farci sapere prima né che uscirà né dove la porteranno. Ci ricordiamo che quando eravamo piccoli le uscite veniva autorizzate tramite comunicazione sul diario che andava controfirmata dai genitori, non capiamo come mai adesso ci chiedano una firma valida per tutto l’anno.
Al nido ci hanno detto che in fondo non avremmo dovuto preoccuparci troppo: i bambini che escono sono più grandi di Maia e lei non uscirà fino a giugno,  aggiungendo in realtà motivazioni per non firmare questo permesso visto che sarebbe di fatto inutile se non fra quattro mesi almeno. Quando Maia sarà più grande e inizieranno le uscite noi ci sentiremmo più sicuri e tranquilli e probabilmente allora firmeremo il permesso.
Certamente non è una questione di fiducia, abbiamo spiegato alla coordinatrice del nido e al signore del Comune, ma più che altro non sentiamo che la bambina sia preparata per uscire. Maia è molto molto vivace e spesso basta un piccolo momento di disattenzione perché lei sparisca: una volta al mare ero con quattro amiche (tra cui due mamme), mi sono distratta un secondo e quando mi sono girata Maia stava rischiando di affogare.
Il nido è per noi un posto che ci permette di lavorare e pensare alle nostre cose, ogni volta che vado in palestra durante la pausa pranzo ci passo davanti in bici e tiro dei bacini alle finestre, lei non mi vede ma io so che è lì e questo mi fa stare tranquilla lasciandomi la serenità per occuparmi di me stessa. Voglio continuare a sentirmi così. Con un foglio che permetta che Maia esca senza essere informata perderei questa tranquillità, cosa a cui non sono disposta. Non è una questione di egoismo di mamma. Siamo disposti a firmare un permesso ogni volta che sia necessario, basta che la mattina quando la portiamo ci dicano di firmare che Maia andrà a prendere il gelato, in biblioteca o al parco. Ma vogliamo sapere cosa farà nostra figlia e dove sarà.
La coordinatrice ha sollevato il problema della programmazione del nido, ma anche qui non capiamo in che maniera potremmo interferire: ci è stato assicurato i bambini escono con un rapporto di due a uno, ovvero due bambini per ogni educatrice, per cui o ci sono 15 educatrici per fare uscire i 30 bambini, o se escono quattro alla volta allora non vediamo dove possa esserci un problema: Maia rimarrebbe all’interno della struttura con i 24 bambini rimanenti.
Non riusciamo proprio a focalizzare dove possa essere un problema nella nostra richiesta di essere avvisati di volta in volta, anzi, abbiamo specificato che in caso di uscite programmate con anticipo, ad esempio se ci dicono che andranno in biblioteca i giorni tal, tal e tale, noi firmeremmo per quei giorni lì… insomma, come mai tutto questo impuntarsi per farci firmare un foglio che di fatto darebbe al nido la libertà di far uscire i bambini senza avvertire i genitori? E anche il Comune si fa questa domanda, per questo ci hanno detto che vogliono fare una riunione con noi e la coordinatrice del nido.

Per me si tratta anche di una questione di comunicazione e atteggiamento che ha il nido con i genitori. Non mi sento in questo nido protagonista come vorrei essere, nel senso che appena appena ci viene detto cosa succede lì dentro, quando in realtà è la seconda casa di nostri figli. Il primo mese hanno cambiato due educatrici e non ci hanno informato, una l’hanno mandata via, altra era in prova, alla fine o si fanno continuamente domande o non sappiamo chi sta coi bambini, chi è in prova, chi non c’è più. Oggi sono andata a prendere Maia e abbiamo incontrato l’educatrice che più ci piace: era in malattia, ma quando le abbiamo chiesto insieme ad altre mamme se tornava domani è diventata bianca e ci ha detto: “non torno, non vi hanno spiegato?”. Siamo rimaste tutte molto sorprese, e dopo la nostra insistenza nel chiedere una spiegazione ha detto che aveva trovato un contratto più lungo da un’altra parte e che quindi lasciava il nido… Devo dire che siamo molto dispiaciute, i bambini ormai avevano costruito un rapporto con lei, e purtroppo è la terza volta che cambiano educatrice (senza contare le ragazze tenute in prova che non sono piaciute alla responsabile) in meno di tre mesi. C’è quindi un problema con i contratti, e crediamo che il tipo di contratto con il personale sia una garanzia per i bambini, se il nido fa dei contratti bassi e brevi non c’è garanzia di continuità e quindi neanche di qualità come dovrebbe essere. E poi come mai non ci avevano informato di questo cambiamento? Ancora una volta rimaniamo fuori da comunicazioni importanti. Se in questioni così importanti manca la comunicazione, non so perchè dovrei credere che mi informeranno di ogni uscita che farà Maia.
Ho chiesto ad una mamma che porta il bambino in un nido comunale se lei aveva firmato questo permesso e mi ha detto di sì, aggiungendo però che quando escono va tutto il personale, quindi educatrici, responsabile, econome e anche le donne “tutto fare” e quindi sono molte di più. In questo nido privato convenzionato anche se dal punto di vista legale il rapporto adulto bambino è in regola noi consideriamo che sia poco ( tre educatrici, una responsabile e due donne delle pulizie che si scambiano il turno (quindi una alla volta). Cinque adulti, di cui solo quattro qualificate, con trenta bambini… non lo so, o per lo meno non mi convince, e poi neanche questo è il punto.
Noi siamo disposti a che Maia esca quando c’è una gita, non siamo disposti che Maia esca a fare un giro con l’educatrice senza esserne informati. E poi noi viviamo a Torino, è inverno e fa tanto freddo, perché dovremmo firmare per permettere a Maia di uscire a prendere il gelato, di andare al parco o in biblioteca con soli due anni? Se la vogliono portare allora ce lo dicano, noi la vestiamo più pesante e firmiamo il permesso!
E poi ci rendiamo conto che magari ci sono bambini che passano tutto il giorno lì chiusi, dalle 8 di mattina fino alle 6 di sera, ma noi non siamo quel tipo di genitori e ci troviamo in una situazione che ci permette di portare Maia intorno alle 9 e andarla a prendere alle 16.30, così poi può fare le passeggiate con noi, andare al parco, accompagnarci nelle commissioni… per non parlare delle volte che usciamo il fine settimana o che magari ce la portiamo a Barcellona 🙂
E’ che vogliamo sapere cosa fa, dov’è, cosa succede all’interno del nido e dove la possiamo trovare. Per lo meno fino al giorno in cui Maia potrà tornare a casa sapendocelo raccontare.
E poi vogliamo avere il diritto di firmare o meno un permesso, altrimenti che me lo chiedi a fare?

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Un bel respiro

Settimana scorsa abbiamo fatto una cosa che invito a fare a tutti: un bel viaggio di famiglia. In mezzo dell’autunno tourinese, di asilo nido e malattie varie, di stress di lavoro e di stress di non lavoro abbiamo presso un aereo e siamo andare cinque giorni a Barcellona.
Ci hanno regalati i biglietti aerei comprati con un po di anticipo e quindi pagati 30 euro andata e 30 euro ritorno tutti e tre, un totale di 60 euro incluso le tasse di Maia che sono la parte più costosa del viaggio. Siamo rimasti a dormire a casa di una carissima amica che ha una bambina due mesi più piccola della nostra e quindi così non solo abbiamo risparmiato un albergo (che sarebbe stato impossibile per la nostra economia attuale) ma le due bimbe che si parlavano in tre lingue diverse e si capivano solo tra di loro(catalano, italiano e castigliano) si sono divertite moltissimo e diventate amiche mentre le loro madri si emozionavano come se fossero uscite da una telenovela sudamericana e non dal centro sociale più grande d’Europa (ma a fin dei conti questo cosa importa?). Sta di fatto che quando siamo tornate a casa Maia piangeva e gridava “Antonia Sonia aereo avion avion” per farci capire che voleva tornare a giocare con la sua nuova amica romana catalana.
Barcellona è una bella città bellissima. E’ una buona opzione per viaggiare con bambini piccoli: ci sono parchi giochi ogni pochi passi, la temperatura è come se uno fosse a Napoli, e la spiaggia cosi vicina da farsi una passeggiata la mattina e giocare nella sabbia senza indossare il giubbotto a fine novembre! E un’altra cosa buona: i taxi costano poco.
Non abbiamo avuto tempo di scrivere neanche una cartolina pressi tra pannolini e guida turistica, non abbiamo fatto quasi foto (però abbiamo posato tutti e tre sopra il drago di Gaudì) ma ci siamo divertiti tantissimo. Maia si è goduta  mamma e papa insieme, noi abbiamo stoppato un po’ lo stress, anche se non ci siamo proprio riposati, e siamo tornati più tranquilli e contenti. Abbiamo cenato a casa di un cuoco catalano e mangiato come non lo facevamo da quando Maia è nata, abbiamo bevuto buon vino iberico. Sono andata a trovare la mia amica Caterina, che non vedevo da 15 anni, e ho trovato su facebook, ho conosciuto i suoi due figli piccoli, suo compagno e loro hanno conosciuto la mia piccola famiglia. Ci siamo abbracciate forte e sono rimasta felice di vederla madre, immigrata come me che cerca di integrarsi e ci sta riuscendo nel paesino dove abita e nell’Università dove fa il suo master.
Barcellona non è lontana, e in realtà nessun posto è lontano, la cosa importante è uscire un po’ della routine e trovarsi del tempo per stare insieme. I bambini hanno bisogno e noi, stressati nella giungla della sopravvivenza cittadina, non solo abbiamo bisogno per andare avanti ma principalmente abbiamo bisogno di vivere, di fermarci cinque giorni per goderci questi piccoli fiori che giorno dopo giorno crescono, cambiano e se non ci fermiamo quasi quasi non li vediamo!
Per cui, in questo blog che si propone di aiutare ad altri genitori condividendo le nostre esperienze, condivido e invito a prendere dei biglietti super economici, andare a casa di amici con bambini e passeggiare per qualche giorno, parlare con il mondo in una lingua diversa e dedicare giorno e notte a  cose essenziale.
Queste sono le fotografie che rimangono nel cuore.

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In(TE|MI)grazione

 Ma l’integrazione migrante dove inizia?(piazzetta Sassari vs Via Giulio)

Tutti i pomeriggi che il tempo ce lo permette andiamo al parco con Maia. Ci sono diversi parchi, con diversi giochi e diversa gente. Ma da qualche tempo osservo una cosa piuttosto strana: noi viviamo in un quartiere nel centro di Torino dove l’immigrazione è abbastanza alta. Ultimamente frequentiamo il parco giochi di Via Giulio, bellissimo giardino del comune gestito da mamme che viene chiuso la sera e dove l’ingresso ai cani è vietato, ma fino a poco tempo fa andavamo spesso in Piazza Sassari, dove ieri siamo dovute tornare (Via Giulio era chiuso per lavori di manutenzione)… dopo cinque minuti però mi sono ricordata del motivo per cui non portavo più a Maia ai giochi di Piazza Sassari: i modi che vedo nelle mamme.
Ieri appena siamo arrivate in piazzetta Maia è salita sullo scivolo dove c’era una bambina che non scendeva giù e non lasciava scendere agli altri: la mamma si è alzata dalla panca e l’ha fatta scendere prendendola dall’orecchio… Maia è rimasta un po’ male. Subito mi sono ricordata che l’ultima volta che ero stata in quel parco, mentre aspettavamo per salire sull’altalena dei grandi (con Maia ci piace andare sull’altalena insieme), due bambini che si dondolavano si sono messi a litigare non so per cosa: le loro mamme, straniere, si sono alzate dalla panchina e ognuna ha dato uno schiaffo al proprio figlio. Maia è rimasta interdetta, io anche.
Mi chiedo perché in due parchi ad una distanza di 400 metri ci siano realtà cosi diverse. In via Giulio incontro una mamma che fa commercio solidale con America Latina e fa un corso di come raccontare fiabe, un papà che fa parte di una compagnia di teatro, un gruppo di mamme che parla di omeopatia… In piazza Sassari le mamme sono quasti tutte immigrate, sedute in gruppetti riconducibili alla loro origine etnico-linguistica, chiuse tra di loro a chiacchierare. Attenzione che io non credo che le famiglie italiane non siano violente, ma non è di questo adesso che voglio ragionare.
Ieri dopo cinque minuti volevo andare via del parco, non mi piace che Maia veda quei modi di rapportarsi con i bambini. Ma subito mi sono chiesta se non è proprio qui che dobbiamo cercare di integrarci. Non passa da questi spazi la creazione di reti, di crescita culturale, di confronto? Dovremmo fare una forma di scambio Sassari – Via Giulio? Ma poi queste mamme sarebbero disponibili ad uno scambio? E che autorità ho io per dire qualcosa a quella mamma che da uno schiaffo per una banalità del genere? Ho l’autorità di avere con me una bambina che ha diritto di vedere solo scene di serenità, ma non credo che questo basti a contrastare una cultura con codici diversi dai miei.
Credo che sia una ricchezza per Maia andare ad un parco giochi dove le madri parlano ai bambini in lingue diverse, anche perché io parlo a Maia in una lingua straniera. Una volta ci è successo, sempre in Piazza Sassari, che c’erano due mamme cinesi che giocavano con loro bimbi e Maia si è messa a giocare con loro, mi sono allontanata un attimo per legare la bici e lei è rimasta con queste mamme che le dicevano cose in cinese: Maia rispondeva nella sua lingua d’infante e io non capivo niente ma ero felice della sua capacità comunicativa. Di fatto ricordo che quando ero piccola i bambini che parlavano in un’altra lingua venivano ben visti, invece adesso alcuni lo vedono quasi come una colpa da nascondere e preferiscono parlargli male in italiano piuttosto che usare la loro lingua madre, togliendo una ricchezza importante a questa società multietnica che troviamo nei parchi e, che piaccia o meno, è in grandissima crescita. Proprio per quello mi preoccupa di più trovare un ruolo, una forma di scambio con queste persone, un modo di integrarci, di migliorare.
Sono sicura che non è grazie alle politiche del Ministro Maroni che l’integrazione viene favorita ma che siano proprio gli ambiti più semplici e pieni di vita, come i parchi giochi, a costruire un futuro comune. Forse in questo le politiche d’integrazione hanno sbagliato, non solo quelle di destra ma anche quelle di sinistra dimenticandosi che è nella quotidianità e semplicità dove bisogna confrontarsi e discutere, perchè l’integrazione non vuol dire cihudere un occhio e lasciare fare ma crescere, confrontarsi e ragionare per una vita migliore, superando codici culturali vecchi senza tenere conto da dove arrivano. Per esempio educare senza violenza ai bambini è una crescita che va al di là delle frontiere e che tocca tutti noi qualsiasi nazionalità si sia.
Forse è proprio da qui che bisogna costruire il mondo di quelli che oggi sono il popolo dei parchi. Ma come si fa a  integrarsi soprattutto quando integrazione vuol dire mettersi in gioco e accettare critiche anche davanti ai propri figli?
Io non so come iniziare ma per lo meno so da dove: ci vediamo al parco.

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Torino passa al digitale terrestre

E noi rimaniamo senza televisione!
Il nostro rapporto con la televisione è controverso, è da tempo che abbiamo la curiosità di vivere senza e adesso scopriremo come si fa…
Anche se sono io quella che più guarda la tv in casa (la sera dopo aver fatto dormire Maia) sono stata sempre la sua più acerrima nemica.
Quando siamo andati a vivere insieme, Maia ancora non era nata, avevamo in un bilocale due televisori. Io odiavo la tv in cucina e tuttora mi sembra una cosa di cattivo gusto sia dal punto di vista decorativo che dal punto di vista sociale: la cucina è il posto in comune per eccellenza e una tv rompe l’incanto dei profumi, colori e sogni del mangiare, di chi lo prepara e di chi lo mangia. La tv interrompe i racconti quotidiani a cena, a pranzo. Ma non avevo ancora l’autorità per dire al futuro papà che volevo buttare giù dal balcone quella tv. In quel periodo viaggiavo molto a Roma e una volta mi chiamò dicendomi "è successa una cosa terribile! si è rotta la tv della cucina!", io ho cercato di nascondere la mia allegria e gli ho detto che una sola tv in casa magari ci bastava… poi, mentre ero nel treno del ritorno, mi ha mandato un sms: "ho a casa una sopresa per te"… era una televisione! Ho dubitato molto in quel momento della nostra capacità di comunicazione e quindi ho odiato ancora di più quella tv, ma non potevo dire niente ("non sai che sforzo portarla sù per quattro piani senza ascensore")…
Poi è arrivata Maia e ho vinto: via la tv della cucina e mettiamo l’amaca!
Adesso abbiamo una bella grande tv per guardare i film nella nostra camera da letto, cosa che non succede mai perchè quando Maia si addormenta dobbiamo ancora lavorare o siamo così stanchi che possiamo solo morire davanti al peggiore programma televisivo che consenta il maggior riposo neurologico.
Oggi i suoi canali verranno spenti e abbiamo deciso di non comprare il decoder. Non so come farò a vivere senza telegiornali, senza vedere linea notte e la mia maestra Botteri, ma faremo una prova di sopravvivenza.
Chi sa fino a quando riusciremo a vivere senza? Chi sa quanti film arretrati riusciremo a vedere adesso che non abbiamo possibilità di perderci in Miss Italia o Bruno Vespa… per fortuna mi rimane il Dottor Forbice su radio RAI 1 perchè, come spiego al papà di Maia, è necessario seguire quei programmi per sapere cosa pensa l’Italia, per fare parte della “realtà” e non lasciare quell’ultimo filo che ci tiene attaccati alla società. Anche se un respiro non può fare altro che un gran bene!
E quindi a differenza di tutti quelli che queste settimane fanno file e file a MediaWorld per chiedere un finanziamento a tasso zero per comprare una nuova tv con il decoder dentro, noi staremo qui a vedere cosa succede dentro di noi, coi nostri libri, coi nostri blog.

 

 

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Matilde

Maia teneva forte forte tra le sue manine un bellissimo rametto di fiori presse dai contadini di Porta Palazzo, mentre era seduta sul suo seggiolino in macchina, e diceva "è per Matilde", la figlia di una mia cara amica nata quattro giorni fa.
2500 gr di tenerezza, bianca, liscia come una pesca. A casa le sorelle di Matilde giravano intorno alla mamma piene di felicità e litigavano tra di loro e con la mamma per prenderla. Maia era incantata.
Siamo andati a prendere la pizza con le bimbe lasciando la mia amica appena partoriente e suo compagno con Matile a cena da soli. Poi abbiamo portato indietro le bimbe e salutato tutti ma Maia non voleva andare via, mi salutava e voleva che ce ne andassimo noi, ma non era proprio il giorno di lasciare una bimba in più in quella casa piena di novità.
Maia ha pianto tutto il viaggio di ritorno. Io li ho promesso che faremmo il possibile per avere un neonato anche noi.
La notte si è svegliata diverse volte, chiedendo di Matilde… forse è proprio ora di pensare ad una sorellina o ad un fratellino?

Per fortuna ci sono cose che non dipendono da noi… San precario provvederà

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Il dolore del parto cesareo

Sono due anni che Maia è nata e credo che appena adesso inizio a guarire di una ferita che mi accompagnerà tutta la vita. Quando Maia è nata non riuscivo a dire “ho partorito” ma solo “è nata” come se fosse nata da un cavolo, e sinceramente lo sento ancora. Non c’è dolore più grande per me di quello di non aver potuto partorire naturalmente Maia. Il cesareo è stata una gran delusione, direi la caduta di un castello, come se tutte le rovine di me stessa mi fossero cadute adosso…
Avevo preparato tutto per il parto in casa, sognavo da anni un parto lontano da medici estranei, nell’intimità e nel nostro protagonismo. Invece mia prima figlia è nata in una stanza freddissima, con me addormentata senza poterla ricevere, proteggere e abbracciare. Non conosco neanche la faccia di chi l’ha ricevuto e sono sicura che Maia non si meritava quello. Dovevamo avvolgerla nei tessuti di cotone, tagliare il cordone solo quando smetteva di battere, doveva essere pressa con cura e delicatezza, invece quel poco che ho saputo me lo ha raccontato mio marito con pochi particolari: ha detto all’infermiera “faccia con calma” mentre bagnava Maia che piangeva e la signora ha risposto “non si preoccupi: i neonati sono di gomma”. Chi sa quando riesco a perdonare mio compagno per no essere stato più deciso e non aver curato Maia in quel momento come avevamo programmato…

Tutte le donne viviamo il nostro parto di forma diversa, io l’ho vissuto con tutta questa angoscia da sola fino a quando ho trovato questa estate una mamma che ha sofferto lo stesso e mi ha prestato un libro: Taglio cesareo solo se indispensabile, sempre con rispetto di Olza Ibone; Lebrero Martinez Enrique.
Quel libro parla della frustrazione che può sentire una donna quando non riesce a partorire naturalmente ma anche da consigli per cercare di uscire da una situazione di dolore che ci può paralizzare. Dice di parlare, di raccontare come ci sentiamo e di raccontarlo ai nostri figli. Di dire a loro come pensavamo di riceverli e dire perché non siamo riuscite a farlo. Anche se sapere perché non siamo riuscite a partorire naturalmente, può essere un lavoro da fare con noi stesse che ci impegna per anni e anni. La cosa importante è dire a loro che avremmo voluto tutt’altra cosa e che ci dispiace come è andata. Per me dirlo a Maia è stata difficile, la prima volta eravamo in campeggio una sera e mentre camminavo con lei in braccio gli ho detto che ero molto triste perché quando è uscita dalla pancia mi avevano addormentato e non ho potuto coccolarla, abbracciarla, baciarla e che avevo preparato tutto per quel momento, che è comunque uno dei momenti più importanti della mia vita. Mentre glielo dicevo ho pianto molto, e condividere quella tristezza con lei ci ha ancora avvicinato di più, o per lo meno Maia ha saputo perchè a sua mamma ogni tanto le arrivano quei momenti di tristeza.
Scrivo questo perché credo che molte donne viviamo queste esperienze ma le viviamo sole, non ci è permesso dire che siamo triste per il parto cesareo. Gli esseri più vicini a cui riuscivo a dire che non stavo bene mi dicevano “ma hai una bambina bellissima” si ma io non sono la bambina io sono una donna con i suoi sogni, con il suo corpo tagliato in due, una donna che non è riuscita a fare quello che ha aspettato di fare tutta la vita. Quello che fa parte della nostra sessualità e quindi del nostro corpo e la nostra anima. Veniamo cresciute come esseri partorienti, sappiamo per certo che quel momento arriverà e anche se con dolore sapremmo farcela. Ma quando poi non ci riusciamo arrivano i dottori, dopo farci soffrire per ore ignorandoci e  riempiendoci di farmaci, senza nessun’altra soluzione che il taglio cesareo d’emergenza, tirano fuori il bambino e se ne vanno via lasciandoci in un letto come
se niente fosse, anzi con il dovere di essere felici, senza il diritto
di fare domande. 

E la chiamano emergenza? Sarebbe emergenza sette ore di ossitocina senza dilatare, chiedendo un medico per risolvere la questione di forma seria? O hanno lasciato arrivare al limite della situazione senza ascoltare cosa dicevo, cosa chiedevo? Forse se mi visitava un ginecologo prima delle 8 di mattina capivano che Maia non usciva e mi facevano un cesareo con anestesia locale? Avevamo iniziato quello che loro chiamano "parto medicalizzato" a mezza notte…
E’ completamente indipendente la felicità di avere il neonato con la frustrazione del parto cesareo, ma quando diventiamo madri perdiamo il ruolo di donne e quindi nessuno si ricorda di questi dolori. Il problema è che in realtà noi continuammo ad essere donne anche quando siamo madri e ci portiamo con noi le nostre tristezze, le nostre frustrazioni, i nostri indispensabili e irrinunciabili sogni.
Solo quando stiamo finendo il puerperio, verso i due anni, ci permettiamo di tirare fuori queste cose. Maia fa due anni il 16 ottobre, e io appena adesso inizio a digerire questo dolore. Credo che solo una cosa mi allevierà: che mia figlia capisca quanto mi è dispiaciuto. Che lo capisca il papà. E vorrei che altre donne si possano aiutare tenendo conto di quanto difficile può essere per una mamma partorire con un parto cesareo.

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